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Storia della boxe femminile

BOXE FEMMINILE: UN’ACCENNO ALLA STORIA.

Quando si parla di pugilato, oppure sport da combattimento in generale, è spesso difficile pensare al femminile. Il pugilato femminile ha avuto molta difficoltà ad affermarsi, e ci sono volute decine di anni perché si potesse assistere a combattimenti regolari, accettati dalle federazioni pugilistiche.

La USA Boxing permise il primo combattimento dilettantistico femminile nell’ottobre del 1995 dopo che l’atleta sedicenne Dallas Malloy intentò una causa alla corte federale, contro la federazione, per discriminazione sessuale. La vittoria della Malloy sulla federazione trovò un riscontro pubblicitario enorme e la Malloy assieme alla sua avversaria, diventò la prima pugile donna che combatteva un match dilettantistico autorizzato.

Nel frattempo anche la Amateur Boxing Association of England (ABAE) si rese conto della crescente popolarità della boxe femminile negli Stati Uniti e decise di autorizzare i combattimenti femminili in Inghilterra nel 1996. In Italia si dovette aspettare ancora qualche anno perché le donne fossero riconosciute nella boxe alla stregua dei loro colleghi maschi e perché la federazione si occupasse di loro.

In un articolo uscito sul «Corriere della sera» l’8 dicembre del 1993 si legge La Federazione mondiale dei dilettanti dà il via libera al pugilato femminile. Combatteranno secondo le regole olimpiche. Il titolo di quest’articolo di Claudio Colombo era: Gong, le donne salgono sul ring. Da Polly mano di pietra agli incontri da balera: il passato di uno sport senza futuro. Il giornalista qui disegna un quadro alquanto negativo del futuro del pugilato e soprattutto di quello femminile inteso come un’impresa azzardata, una discussione sul “niente”, criticando l’allora presidente dell’Associazione mondiale dilettanti Anwar Chowdry che permetteva alle donne di combattere “addirittura” secondo le regole olimpiche. Per inciso Chowdry stesso era consapevole della rivoluzione cui aveva dato il via, e infatti aveva commentato: Non so quando, non so come. So soltanto che da oggi sarà possibile.

Nell’articolo Colombo porta avanti la sua invettiva sul pugilato femminile descrivendolo come nato in mezzo a balere di periferia o su ring di secondo ordine popolati di mezze figure maschili. Di tanto in tanto, però, come una ruota che gira, spunta all’orizzonte un’eroina che si batte per la parità nello sport, in questo sport, denuncia la severità maschilista dei regolamenti, contesta la posizione negativa della medicina, si rivolge ai tribunali, ottiene il permesso di regalarsi una mezz’ora di celebrità senza futuro. Si riferisce a quanto era appena accaduto a Seattle, dove due ragazze si erano battute tenendo nella tasca dei pantaloncini un’ordinanza favorevole del giudice distrettuale, dandosi – secondo il commento del giornalista – schiaffoni sul ring davanti a una tribuna semi deserta e sguaiata col risultato di avere solo qualche riga sui giornali.

Sul futuro della boxe femminile, il giornalista preconizza che non ce ne sarà alcuno. Per diversi motivi. Intanto non esisterebbe un numero di atlete sufficiente ad avere un inquadramento. Un altro è l’inutilità di un progetto che contrasta con le conoscenze della medicina. E infine la posizione del Consiglio Internazionale Olimpico, che considerando la boxe uno sport a rischio, ha valutato l’opportunità di trasformarlo in disciplina olimpica. Perciò – è la conclusione di Colombo – la boxe resterà così come è: discussa e discutibile, inguaribilmente maschile e maschilista.

Lo dice la cronaca, lo conferma la storia.

A parte la negatività dell’atteggiamento censorio del giornalista del «Corriere», le informazioni in suo possesso non sono così esatte. La storia ci dice che l’entrata delle donne negli sport da combattimento non è poi così recente, se ne trovano nel lontano XVIII secolo londinese durante il quale c’erano stati combattimenti fra donne sebbene ancora tecnicamente lontani dalla boxe moderna. Le lottatrici dell’epoca, infatti, potevano attaccare e difendersi anche con i piedi e le ginocchia, colpendo tutta l’area del corpo dell’avversaria ed era concesso anche graffiare e strappare. Questo rendeva i combattimenti decisamente pericolosi per chi si cimentava e uno spettacolo gravoso da sopportare per un pubblico che almeno non era più quello che voleva assistere alle lotte dei gladiatori nella Roma antica.
Alcune tappe fondamentali nella storia della boxe femminile sono state:

·      Nel 1722, a Londra, al Boarded House, proprio vicino a ciò che adesso si chiama Oxford Circus, Elizabeth Wilkinson, the Cockney Championess, sfidò Martha Jones;

·      Il combattimento tra Nell Saunders e Rose Harland nel 1876 al Hills Theater a New York, in assoluto il primo incontro femminile avvenuto negli Stati Uniti;

·      Nel 1954 Barbara Buttrick, una delle donne pugili più famose nella storia del pugilato, la prima a vedere trasmesso il suo incontro sulla rete televisiva nazionale americana; nello stesso anno Eva Shain scrisse una lettera al New York State Athletic Commission presieduta da Edwin B. Dooley, chiedendo di fare parte della commissione dei giudici di gara dei combattimenti professionistici. La sua richiesta fu accolta e due anni dopo, il 29 settembre del 1977, si ritrovò al Madison Square Garden a fare da giudice durante l’incontro per il titolo mondiale tra Muhammad Ali e Earnie Shavers. Shain è stata la prima donna giudice in un combattimento per un titolo mondiale per la categoria dei pesi massimi. È il periodo in cui vengono concesse le prime licenze di combattimento per le donne.

·       Nel 1975, Caroline Svendsen riceve la prima licenza pugilistica degli Stati Uniti, nello stato del Nevada e può combattere in un match autorizzato di quattro riprese a Virginia City nello stesso stato;

·       Nel 1976 la pugile Pat Pineda è la prima donna ad avere una licenza nello stato della California e nel 1978, dopo uno stancante processo nello stato di New York, tre valide boxers, Cathy “Cat” Davis, Jackie Tonawanda e Marian “Lady Tyger” Trimiar ricevono le loro licenze.

Negli anni settanta, un periodo, come abbiamo visto particolarmente generoso per le donne che volevano darsi alla boxe, ci fu un vortice di pubblicità che ne spinse altre ad iniziare questo sport. Un coinvolgimento mediatico maggiore arriverà vent’anni dopo, quando nell’ottobre del 1999 sale sul ring la figlia del leggendario Muhammad Alì, Laila Alì. Il suo debutto all’età di 21 anni, al Turning Stone Casino di Verona, nello stato di New York, crea un’eco di notizie e pubblicità attorno all’evento che supera quello di qualunque combattimento femminile del passato.
I primi campionati mondiali sono datati 2001 e solo nel 2012 la boxe femminile è stata accettata come disciplina olimpica introdotta con quattro categorie di peso. Quasi per un gioco del destino, nell’estate del 2012, alle olimpiadi di Londra, Nicole Adams, classe 1982, britannica, vince la prima medaglia d’oro olimpica, segnando indelebilmente il suo nome e cognome nella storia della boxe femminile. Commenterà un giornalista della Redazione Sportitalia in un articolo pubblicato il 09 Agosto 2012 ed intitolato Alla britannica Nicole Adams il primo oro olimpico nella storia della boxe femminile:

Altro che sport di ghetto, più che di nicchia. Le donne hanno tutto il diritto, come gli uomini, di prendersi a pugni su un ring rispettando delle regole ferree. E queste due ragazze hanno dato spettacolo.
Mi chiedo che cosa ne pensi adesso il giornalista del «Corriere della sera» che quindici anni fa pensava che la boxe non avrebbe avuto un futuro e che la sua natura contrastasse perfino con le conoscenze della medicina. Mi chiedo se anche lui abbia fatto ammenda e si sia ricreduto sui ruoli che la donna può assumere.

Alla luce dei fatti è possibile che consideri ancora la boxe femminile una discussione sul “nulla”?
Attualmente, il pugilato è praticato da entrambi i sessi, da persone appartenenti a diversi ceti sociali o diversa estrazione etnica, viene utilizzato come attività ricreativa per soggetti con handicap di diverso tipo e come tecnica di autodifesa in numerosi progetti contro la violenza sulle donne. Da una parte il pugilato femminile si è rivelato uno strumento di emancipazione e anche un mezzo per portare alla luce un diverso orientamento sessuale.

Molte pugili conosciute durante la mia esperienza come pugile dilettante, sono omosessuali dichiarate. Poche volte però ho incontrato donne che intraprendono tale carriera sperando nel riscatto sociale o nel guadagno, ciò è dimostrato dalle borse ricevute dalle professioniste per titoli di grande livello come WBA, WBO, WBC, IBF; borse nettamente misere rispetto a quelle ricevute dai colleghi maschi.

L’ingresso delle donne nella boxe è solo l’inizio. Ci sono ancora molte sfide da affrontare e traguardi da raggiungere. C’è bisogno di una educazione al femminile dentro le palestre di pugilato che vada oltre il maschilismo di cui sono impregnate, rispetto al quale non è sufficiente statuire la semplice parità di diritto tra femmine e maschi.

Nella mia esperienza sia in Italia che negli Stati Uniti non ho visto tutto sommato un diverso modo di trattare il femminile. In Italia vige un forte paternalismo e le donne nelle palestre sono considerate alla stregua dei maschi con cattiva coscienza, oppure pugili di seconda categoria. Negli Stati Uniti, invece, considerato il business che avvolge questo tipo di sport le donne pugili sono considerate una possibile fonte di guadagno e perciò ricevono le attenzioni che si riservavano prima agli uomini. Ma sul fronte del rispetto hanno ancora da fare molta strada.
Il pugilato per me, e per tante altre, è vita e famiglia, una passione nonché una valvola di sfogo, un modo di ribellarsi alle avversità trovando maggiore solidità, solidarietà ed autostima. Questa è la caratteristica dello sport in generale, o per lo meno così si auspica che sia, come dice Alberto Cei in Psicologia dello sport:

I ragazzi e le ragazze fanno sport per un insieme ampio di ragioni, alcune relative allo sviluppo delle competenze sportive e al piacere di confrontarsi con gli altri ma altre riguardano il bisogno di stare con gli amici e di spendere energia attraverso l’azione fisica.

Lo sport quindi è affiliazione, come voglia di stare con gli altri e avere degli amici; potere, in quanto opportunità di influenzare e controllare gli altri; indipendenza, che vuol dire fare da sé senza l’aiuto di altri; stress, come ricerca di eccitazione; eccellenza, per acquisire abilità che portano ad essere migliore; successo, allo scopo di acquisire prestigio, approvazione sociale e status; aggressività, come opportunità di dominare gli altri. Sono infine queste le motivazioni che spingono ad intraprendere un’attività sportiva agonistica, su cui concordano numerosi psicologi dello sport, e che, a ben guardarmi, sono anche ciò che personalmente mi ha spinto ad intraprendere la boxe.

Vorrei infine menzionare che spesso nelle palestre di boxe si trovano donne con trascorsi famigliari devastanti, le quali cercano di trovare un proprio equilibrio psico-fisico perché hanno subìto violenze fisiche e psicologiche da parte di mariti, fidanzati, fratelli, padri e che si ribellano alla violenza e alla condizione di sottomissione in cui sono state relegate. Spesso parlo con le donne e le ragazzine che frequentano i miei corsi e nonostante alcune dichiarino di praticare la boxe per il piacere che traggono nello scaricare le proprie tensioni grazie al duro allenamento, scopro che molte di queste hanno un passato traumatizzato dalla presenza di un maschio violento. Altre ancora pur non avendo traumi apparenti covano una grande rabbia, e ricavano sicuramente un beneficio dovendo simulare l’aggressività in un ambiente protetto. Nonostante il maschilismo, il rischio di incorrere in violenze psico-fisiche da parte di allenatori e compagni di palestra (parlo per esperienza personale, non posseggo ancora elementi sufficienti per capire l’entità del fenomeno, ma sono sicura che sia molto diffuso) e nonostante le diverse ingiustizie che segnano la differenza tra i pugili maschi e femmine, ritengo che questo sport sia altamente formativo e mi riprometto di continuare a praticarlo e ad insegnarlo finché ne avrò la possibilità.
Attraverso la mia esperienza pugilistica ho trovato il coraggio di guardarmi e riconoscermi come essere umano in continua evoluzione e non semplicemente come “donna”, “immigrata”, “italiana”, “marocchina”, “straniera”, e così via. Sul ring nessuno è altro che un pugile: tutto ciò che importa è l’intelligenza, la tecnica, la preparazione e più di tutto la passione.

Tratto dalla tesi di laurea  “L’identità non esiste” di Imane Kaabour

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