
La palestra dove sono cresciuta i primi sei anni della mia carriera pugilistica si trova a Genova.
Si accedeva attraverso una scala metallica a due tornate illuminata da una luce neon pungente, la porta si trovava subito sulla sinistra, a destra invece c’era la palestra di lotta libera e kickboxing. L’ambiente era sterile, ricordava quello di uno scantinato abbandonato. Una volta entrati lo sguardo veniva catturato dal ring, dai sacchi e dagli specchi che si trovano proprio al di sotto del piano di entrata. La sensazione che si provava era quella di osservare dall’alto una fossa per leoni. C’era odore di sudore, umidità, i pavimenti poco puliti, i sacchi usurati, un ring in disfacimento che sembra cadere da un momento all’altro e gli specchi erano ancora impregnati del sudore di chi aveva faticato il giorno prima. Insomma un ambiente fantastico, magico, così intimo e così personale. La sera, verso le 18, pian piano la palestra si riempiva di persone, giovani, adulti e qualche anziano, tutti si mettevano al lavoro, gli “amatori” inseguivano chi di noi aveva il turno di allenarli, gli atleti invece avevano altro da fare…. Correvano, saltavano la corda, battevano i sacchi.
In Anima e Corpo di Luïc Wacquant la palestra somiglia ad una officina dove si modella il pugile, l’atelier dove si fabbrica quel corpo-arma che l’atleta si prepara a lanciare nel combattimento sul ring, la meta agognata dove si affinano le abilità tecniche e i saperi strategici che fanno di un pugile un combattente completo.

[…] La fornace dove si alimenta la fiamma del desiderio pugilistico e la credenza collettiva nella veridicità dei valori indigeni, senza le quali nessuno saprebbe arrischiarsi a lungo tra le corde. Ma la palestra di boxe non è solo questo, e la sua missione tecnica esplicita – trasmettere una competenza sportiva – non deve mascherare le funzioni extra-pugilistiche che essa svolge per coloro che partecipano a quel culto plebeo della virilità che è la Nobile Arte
La palestra, nella Chicago di Wacquant come nella mia Genova e nel resto del mondo, è lo scudo contro l’insicurezza della strada e le pressioni della vita quotidiana.

[…] Il gym è inoltre una scuola di moralità nel senso durkheimiano, vale a dire una macchina per produrre lo spirito di disciplina, l’attaccamento al gruppo, il rispetto dell’altro come di sé e l’autonomia della volontà indispensabili allo sviluppo della vocazione pugilistica .
Ed è proprio così, la palestra, per me come per la maggior parte dei miei amici pugili, rappresentava un luogo sicuro, protetto, dove si poteva esprimere la rabbia e svuotarsi per pensare con più serenità al futuro, arrivando meglio ad affrontare le sfide più grandi, come conoscere se stessi e lottare per ciò che volevamo, sia fuori che dentro al ring. La palestra era una seconda famiglia. Un luogo isolato dal mondo esterno, in cui non si parlava mai di qualsiasi cosa potesse creare tensioni. L’unico argomento era sempre la boxe.
Si parlava di peso, di alimentazione, di coloro che hanno fatto grande la boxe, si facevano pronostici su chi avrebbe vinto il mondiale di questa e di quella categoria, si facevano pettegolezzi sui colleghi di altre palestre. Tutto quel che usciva dalle nostre bocche aveva a che fare solo con lo sport. L’unica eccezione era l’argomento “donne”, e qui i miei amici sapevano dare il meglio e il peggio di loro stessi. Era molto divertente per me ascoltare le loro confidenze riguardo alle esperienze con le donne. Ricordo che un giorno uno di loro mi disse: “lo sai Imane, io ti parlo liberamente perché tu per me non sei una donna ma un amico come gli altri”. Ancora oggi scoppio in una sincera risata pensando alla sua espressione seria mentre lo diceva. Se sei una femmina in un ambiente maschile hai tre vie di uscita: andartene, diventare la donna di uno di loro, o un maschio alla stessa stregua.
Essere una femmina è stato un ostacolo nell’ambiente pugilistico genovese: nonostante le mie qualità atletico-tecniche, non sono stata reputata un pugile al pari dei miei compagni maschi ma una sorta di mascotte. Non era raro sentirmi dire ironicamente “ma perché ti vuoi rovinare quel bel faccino?” oppure dover rimarcare che non mi trovavo in un luogo per femminucce. In quegli anni, tra il 2002 e il 2007 le atlete in Liguria erano pochissime, questa situazione rendeva obiettivamente molto difficile per il mio allenatore organizzare un incontro, anche nel caso si fosse deciso a puntare su di me. Le cose andarono avanti così fino all’estate del 2008 quando lanciai il mio ultimatum: o mi facevano combattere o sarei andata in un’altra palestra. Finalmente dopo sei anni di pratica pugilistica vinsi il mio primo match.

Paternalismo, maschilismo, poca attenzione nei miei confronti come atleta e la discriminazione per via del mio sesso mi hanno impedito di portare avanti la carriera che avrei voluto per me stessa. È stato per questo che mi sono decisa a lasciare l’Italia per andare negli Stati Uniti. Era l’aprile del 2009.
Così arrivai nella Grande Mela e me ne accorsi subito. Iniziai ad allenarmi presso la Gleason’s Gym, una delle palestre più famose al mondo, che si trova in un quartiere storico di New York, il DUMBO. La prima volta che vi misi piede lo feci da turista: ero una di quelle migliaia di persone che ogni anno andava a vedere il luogo dove i grandi campioni mondiali e i loro beniamini si allenavano.
Anche alla Gleason’s, come alla mia palestra di origine, si accede attraverso una scala stretta e buia che questa volta porta al primo piano. Quando si entra si viene investiti dall’imponente colore rosso delle pareti su cui spicca il nero delle colonne. Contemporaneamente lascia inchiodati la luce che entra obliquamente dalle grandi vetrate tipiche di quei vecchi palazzi del DUMBO che ricordano ancora oggi il loro passato di fabbriche. Ci sono quattro ring, di cui uno riservato al wrestling, e poi una moltitudine di sacchi appesi qui e là per il grande salone. Ovunque ci si giri si vedono striscioni messi lì a indicare il nome dei campioni passati per la Gleason’s, uno di questi diceva: Questa è la casa del campione del mondo IBF Yuri Foreman.

Non si sentiva altro rumore che quello sordo dei sacchi colpiti con potenza, l’odore di sudore, il rumore delle perette che andavano su e giù sotto i pugni dei pugili che si allenavano, gli schiamazzi di “Blim”, uno dei tanti allenatori della palestra. Mentre le corde ruotavano ad alta velocità, due atleti sul ring centrale si impegnavano nello sparring, e agli specchi qualcun’altro si cimentava nello shadowboxing. Tutto qui. Erano queste le immagini e i rumori di quella palestra, e per me sarebbero bastate a fare crescere la voglia di dare il meglio di sé anche al più pigro degli atleti. Il mio allenatore si chiamava Hector Roca, un anziano signore che ha portato numerosi atleti al titolo mondiale e che allena le star di Hollywood per i film in cui interpretano ruoli legati al pugilato, gente come Hilary Swank che ha recitato in Million dollar baby di Clint Eastwood.
Rispetto alle palestre genovesi, è diverso il funzionamento delle palestre americane, e della Gleason’s in particolare. All’interno si trovano centinaia di allenatori, centinaia tra amatori e atleti di vari livelli, compresi i professionisti e i campioni mondiali. Ogni allenatore ha i propri clienti e fighters. Tutto è organizzato secondo il modello del business: si fanno sessioni private con gli allenatori, si possono scegliere, si concorda il prezzo e la quantità di appuntamenti settimanali. I patti sono molto chiari e la serietà è d’obbligo per l’allenatore, atleti e amatori. Ogni allenatore paga a sua volta un mensile per l’ufficio che impegna, mentre i clienti e i professionisti pagano la palestra oltre alla quota dovuta al trainer. Io pagavo la mia quota con lo stipendio che ricevevo lavorando in un ristorante italiano, oltre all’affitto della stanza a Brooklyn e le spese per mantenermi. Risultava piuttosto dispendioso ma in questa maniera potevo allenarmi seriamente, con un trainer di alto livello, pensavo così di avere più possibilità di ottenere dei risultati rispetto a Genova, non foss’altro per la presenza di molte professioniste e dilettanti di alto livello che avrei potuto incontrare. Infatti la Gleason’s ha prodotto nel tempo circa centotrenta campioni, molti dei quali sono stati campioni del mondo.
La palestra mi entusiasmava perché finalmente sentivo di aver trovato il luogo più adatto a me, dove sviluppare le mie qualità atletiche e sentirmi un vero pugile. Tutto ciò era vero e tangibile: in pochi mesi avevo fatto passi da gigante grazie ad allenamenti mirati e di grande qualità. Quando salivo sul ring ero finalmente un pugile e non ci sarebbero state scuse da poter accampare. Ricordo che Hector un giorno mi disse “qui non permettiamo che si pianga come delle femminucce, se hai scelto di fare il pugile fai il pugile altrimenti te ne vai”. Un messaggio molto chiaro che ero disposta a condividere completamente. In fin dei conti era quello che volevo e lo stavo ottenendo.
Ma, come si dice, non è tutto oro ciò che luccica. Se alla Gleason’s le donne pugili sono considerate a tutti gli effetti dei pugili, dall’altra parte c’è una grande cultura del machismo. In fondo il pugilato è uno sport che fino a poco tempo fa era ufficialmente praticato solo gli uomini e le donne sono ancora considerate delle intruse. Lo abbiamo visto anche nel film di Eastwood. Personalmente ho dovuto sostenere molte discussioni a questo riguardo. Alcuni si sentivano in diritto di dirmi con chi dovevo o non dovevo parlare in palestra, altri che, in riferimento alla mia estrazione religiosa, mi esortavano a sposare dei “fratelli” e ricevere così una “protezione”. In ogni caso mi accorgevo che per molti rappresentavo una vera e propria fantasia sessuale. Andando oltre lo spettacolo della violenza, chi guarda un incontro di boxe si accorge facilmente che diversamente dalla maggior parte degli sport, questo ha un contenuto piuttosto erotico: il contatto con la carne nuda dell’altro, la sfida che corre tra i due avversari, fatta di sguardi e di movimenti del corpo, il piacere che si prova nel sentirsi più forte e nel vedere l’avversario soccombere, non è sadismo ma una forma dell’eros.
L’ambiente pugilistico, anche là dove la boxe femminile ha messo profonde radici, è ancora intriso di maschilismo e machismo. Nonostante questo, in quella palestra avevo scoperto la pace, mi faceva sentire bene perché avevo trovato la felicità e cosa ancora più importante lo avevo fatto da sola. Dopo vari mesi di allenamento decisi di cambiare allenatore: Hector era ormai un padre per me ed era diventato troppo protettivo, cosa che agonisticamente mi danneggiava. Scelsi così M. S., un allenatore esterno alla palestra e fu la decisione più giusta. Nel frattempo iniziavo ad essere stanca: il lavoro, la scuola, lo stress, la megalopoli caotica mi avevano portato allo stremo. Mi presentai al torneo più importante della mia vita (il Golden Gloves della città di New York), un traguardo che ogni pugile dilettante aspetta con ansia, pronta fisicamente e tecnicamente ma psicologicamente a pezzi. Giocai la semifinale a Mont Vernon, durante l’incontro che avrebbe dovuto essere la vigilia del mio ingresso al Madison Square Garden, mi si ruppe il braccio sinistro a causa di un colpo scorretto della mia avversaria. Tutto il mio sogno cadde a terra e insieme a me tornò a casa su una barella.
All’inizio non potevo credere di essere tornata a Genova, tanto che spesso mi trovavo in strada convinta di camminare dentro un sogno e che prima o poi mi sarei svegliata in camera mia, nella mia casa a Brooklyn. Purtroppo non era così. So per certo che avrei potuto raggiungere il Madison, forse non avrei vinto la finale, chissà, ma ero all’altezza della situazione e avevo delle carte da giocare. Ero stata felicemente donna, felicemente immigrata, felicemente pugile. A quattro anni da quel fatto, ho accettato la situazione, sono riuscita a ricominciare una vita qui a Genova, anche se lo spettro di New York mi perseguitava ogni giorno. Ero arrivata ad un bivio, andarmene di nuovo nell’unico posto al mondo che sento casa, New York, oppure aprire una palestra nella mia città per trasmettere ad altri quelle sensazioni, quella passione che solo la boxe ha saputo darmi. Volevo trasmettere quella libertà che ho sentito nell’essere pugile e quelle lezioni di vita che ho ricevuto da tutti i miei maestri, in Italia ma soprattutto alla grande Gleason’s Gym. Ed Eccomi qui…… quel sogno ora si chiama KBC Kaabour’s Boxing Central.
